Studio Cataldi: notizie giuridiche e di attualità Roberto Cataldi
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Introduzione - La giustizia imperfetta

La giustizia imperfetta - Introduzione.
So bene che l'argomento che mi accingo a trattare presenta una notevole difficoltà, sia per la necessaria ampiezza dei richiami sia per l’impossibilità di una "reductio ad unum". Ho altresì consapevolezza del fatto che di fronte all'esplosione del giustizialismo, della "giustizia emergenza" e della "giustizia spettacolo", e dinanzi all'affermazione di quelli che vengono - forse impropriamente - definiti diritti "naturali" (religioni, etnie, massimalismi, integralismi), i cosiddetti "diritti razionali" (eguaglianza, libertà, solidarietà, giustizia) rischiano di apparire pure astrazioni o fantasmi mentali. L’epoca di “tangentopoli” ci ha consegnato un Paese trasformato: l'azione dei magistrati, smascherando il radicato intreccio tra politica e affari, non si è limitata - né poteva essere altrimenti - ad agire in maniera “asettica” contro una classe politica e imprenditoriale che sulla corruzione aveva fondato le proprie fortune e il proprio potere; essa è andata oltre, determinando modificazioni profonde nel comune sentire dei cittadini, riportando nella sfera del diritto penale comportamenti diffusi e illegali considerati da molti prassi comune dei più furbi. In un certo senso è come se avesse riaperto una crisi su quello che effettivamente è il significato della giustizia, cercando di rimarginare quella secolare ferita che contrapponeva l'uomo comune alla toga. Di Pietro, in tale prospettiva, è sicuramente stato l'anello di congiunzione: un magistrato che in aula, e davanti alle telecamere, irrompe con un "che ci azzecca", può far sorridere i dotti giuristi, ma sicuramente rinfranca l'animo di coloro che da lungo tempo ascoltavano passivamente complesse requisitorie di cui non comprendevano lo scopo. Il terremoto è stato tale da non esaurirsi con il ricambio della classe dirigente: la "questione giustizia", insomma, è entrata di prepotenza nel dibattito politico e nella vita quotidiana. Si auspicano incessantemente leggi e riforme; politici e magistrati indicano strade e percorsi spesso diametralmente opposti, perché la giustizia trionfi; la gente comune ha ormai familiarizzato con alcuni termini tecnici altrimenti relegati nel vocabolario degli arcaismi: chi è che non sa cosa sia un "avviso di garanzia" o un "rinvio a giudizio"? E chi avrebbe mai ipotizzato manifestazioni a favore di magistrati, sit-in di cittadini per difendere giudici e pubblici ministeri sottoposti agli attacchi di questo o quel politico? Mai come oggi la giustizia ha sollecitato l'attenzione e la sensibilità della opinione pubblica e dei mezzi di informazione. Non a caso le facoltà di giurisprudenza negli ultimi tempi hanno registrato un sensibile incremento di iscritti. Tutto, dunque, lascerebbe presagire un futuro luminoso per la giustizia italiana, dopo anni sostanzialmente bui seminati di favoritismi, insabbiature, lungaggini e storture. Non mancano invece segnali che indicano un'evoluzione del dibattito tutt'altro che agevole e serena. Il tema giustizia, infatti, ha subìto un tale esasperato processo di politicizzazione da rendere praticamente impossibile l'assumere posizione senza contemporaneamente schierarsi. Alcuni uomini politici non perdono occasione per sferrare attacchi frontali alla magistratura, arrivando persino a chiedere di non essere giudicati da certi tribunali "scomodi", accusati di essere strumento politico dello schieramento avversario. Si ha come la sensazione che la giustizia stia mutando il luogo naturale della propria residenza: una commistione, anzi un'osmosi, tra i poteri dello Stato che porta a una pericolosa confusione di ruoli. Il dibattito ideologico, più spesso la polemica e lo scontro che si agitano intorno al tema della giustizia, rischia di ridurre la sfera giudiziaria solo al suo aspetto formale, tralasciando e offuscando quello sostanziale. In una parola, è il senso della giustizia che oggi trova enormi difficoltà ad avere cittadinanza. Si pensa erroneamente che la giustizia si identifichi con una serie di strategie persecutorie atte a favorire questo o quel rappresentante di partito, ma l'errore - a parer mio - è proprio quello di voler affidare una connotazione ideologico-politica a un sistema che ha a che fare con la totalità degli individui. Se io rubo una mela sono passibile di ammenda, e questo non ha nulla a che vedere con il mio credo religioso o politico. L'idea di questo libro nasce da qui, dalla volontà di riscoprire ciò che sta, o che dovrebbe stare, a fondamento delle leggi e dei codici; dallo sforzo di rendere consapevole il lettore, anche privo di conoscenze giuridiche, delle ragioni profonde che muovono l'universo della giustizia. Il lettore incontrerà, nel corso della trattazione, numerosi riferimenti storici, che non vogliono avere intenti didattici o pedagogici, ma lo scopo di evidenziare come l’evoluzione dei sistemi giudiziari, le idee sviluppate intorno al diritto e alla giustizia procedano verso un lento, progressivo superamento della visione esclusivamente legalista e normativa, per la quale "giusto è ciò che è legale". Va invece facendosi strada l’idea che la giustizia, prima ancora che dei codici e delle leggi, sia propria dell’uomo nella sua essenza. Non sarà, allora, un viaggio tra i "lacci e lacciuoli" della burocrazia, tra i polverosi volumi delle aule dei tribunali. Al contrario, sarà il tentativo di dimostrare come gli epifenomeni dei sistemi giudiziari ruotino intorno a un unico concetto chiave: la Giustizia come valore radicato nel profondo dell'animo umano. Questo viaggio esplorerà allora il significato della giustizia, delle sue molteplici connotazioni storiche, del suo difficile connubio con il diritto (cap I); il processo di superamento del formalismo, ossia l'idea aberrante per cui tutto doveva sottostare alla forma, elemento determinante e prioritario (cap.II); la vera e propria arte del convincimento, cioè della dialettica come strumento al servizio della verità (cap IV); la situazione, spesso drammatica, della giustizia nel mondo (cap VI). Giustizia e trasgressione (cap III) potrebbero, a prima vista, sembrare inconciliabili; eppure il trasgredire, quando si è in presenza di norme ingiuste, è un diritto e, in alcuni casi, un dovere di ciascuno di noi. Uno spazio è riservato anche alla vendetta (cap. V), uno dei sentimenti più inquietanti e oscuri dell'uomo, della cui natura comunque fa parte. Non ho certo la pretesa di risolvere una volta per tutte problemi atavici, a lungo controversi e dibattuti; mi preme solo sottolineare l'impossibilità di una qualsiasi soluzione positiva se della giustizia non si riscopre il lato più importante e profondo, se non si riacquista il senso di ciò che è giusto. Nonostante i segnali di un avvenuto cambiamento, assistiamo spesso, nell'odierna cultura, a interventi legislativi "irragionevoli", cioè non adeguati a un valore di giustizia. Il risultato è quello di aver creato un sistema di rigidi formalismi che da un lato non riesce a garantire al cittadino la possibilità di far valere i suoi diritti in tempi ragionevolmente brevi; dall'altro, non sembra averne compreso le esigenze più profonde. In altre parole, è come se la forma - la creatura, per usare un termine metaforico - si fosse separata dal suo creatore e dalle necessità di costui; quasi a diventare struttura autonoma rispetto al pensiero che l'ha generata. E' il caso, se vogliamo, che contraddistingue tanta parte della letteratura: Frankenstein che si ribella al suo padre-padrone, il dottor Jekyll e Mr. Hyde o - ancora - i robot che vincono e sovrastano l’”apprendista stregone” che li ha inventati. Senza entrare nel merito degli aspetti pratici e procedurali, capita spesso di avere a che fare con leggi sostanzialmente ingiuste che, come tali, legittimano la resistenza di chi desidera una normativa ispirata al buon senso piuttosto che a principi insensati e ormai obsoleti. Le leggi, anche se in regola dal punto di vista formale, possono avere l'effetto di legalizzare un'ingiustizia: è facile rendersi conto, ad esempio, di come quelle del regime nazista, pur formalmente corrette, violassero quelli che oggi vengono riconosciuti come diritti fondamentali dell'uomo. Non si devono quindi confondere, come osserva Eugenio Lecaldano (1995,427), due nozioni etiche concettualmente diverse, ovvero la legge promulgata correttamente, vale a dire nei modi previsti dalla Costituzione, e la legge giusta: non sempre esse coincidono. Riacquisire il senso della giustizia, che è in primo luogo giustizia del caso singolo (come sostiene correttamente Flick), significa coglierne il fondamento non nella legge formale, ma nelle esigenze più autentiche dell'uomo, alle quali occorrerebbe uniformare anche la norma di diritto positivo. Significa altresì applicare il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza e quindi porre alla base di ogni decisione, oltre alle nozioni tecniche, la logica, il senso comune, l'esperienza, la coscienza sociale. Quello che in questo libro vorrei evidenziare è la dialettica esistente tra principio generale, assoluto, e particolarismo inteso come coscienza dello specifico: contestualizzazione del singolo caso all'interno di un sistema che non gli è autonomo, ma che - al contrario - è espressione e rappresentazione collettivamente sancita di un "modus vivendi". In tale prospettiva, assume un valore normativo anche il cosiddetto "senso comune"; l'analisi compiuta da Evans-Pritchard, in relazione al concetto di stregoneria, ha evidenziato proprio come il senso comune, anche se apparentemente fondato sulla superstizione, sottenda una logica: quella di rendere il mondo comprensibile. Laddove dunque la razionalità crolla miseramente nell'impossibilità di cogliere un nesso fra gli eventi, il senso comune supplisce a questa mancata coerenza secondo il rimedio dell'aspettativa. L'abitudine, la consuetudine, l'ingenuo buon senso, che ci fanno esclamare - anche dinanzi a una evidenza normativa - "non è giusto!", oppure "non è così che dovrebbe essere!", non hanno la pretesa di trascendere la ragione, bensì di rafforzarla proprio nel momento in cui palesa la sua inadeguatezza. Stiamo parlando pertanto di due momenti distinti, ma ugualmente funzionali, della categoria del giusto: la percezione innata e intimistica del "come dovrebbe essere" e quella fredda e calcolata, uniformata a parametri meno individualistici, del "come è". La stessa formula costituzionale dell'eguaglianza "davanti alla legge" deve essere intesa come divieto di leggi che vìolino in ogni modo la pari dignità sociale, e che pongano disparità irragionevoli di trattamento tra fattispecie meritevoli di trattamento eguale. Va dunque ristabilito un legame tra legge e giustizia, come secoli addietro aveva evidenziato Ulpiano in un brano riportato nel Digesto Giustinianeo: Bisogna che colui che vuole dedicarsi al diritto conosca in primo luogo da dove deriva il termine diritto ("ius"). E' chiamato così perché deriva da "giustizia" ("iustitia") poiché, come elegantemente lo definisce Celso, "il diritto è l'arte del buono e del giusto". Per tale motivo alcuni ci chiamano sacerdoti, in effetti noi rendiamo culto alla giustizia e professiamo il sapere del buono e del giusto, separando il giusto dall'ingiustizia, discernendo il lecito dall'illecito, anelando a migliorare gli uomini, non solo mediante il timore dei castighi, ma anche attraverso lo stimolo dei premi, dedicati, se non erro, a una vera e non simulata filosofia (Giustiniano, Digesto, Parte Prima, Libro Primo, Titolo I.1.). "Colui che vuole dedicarsi al diritto" farebbe bene a tenere a mente anche queste parole di Kant: se la violazione di un diritto commessa in una parte del mondo viene sentita in tutte le altre parti, allora l'idea di un diritto cosmopolitico non appare più come un tipo di rappresentazione chimerica ed esaltata, ma come un necessario completamento del codice non scritto sia del diritto politico sia del diritto internazionale verso il diritto pubblico dell'umanità, e quindi verso la pace perpetua, e solo a questa condizione possiamo lusingarci di essere in costante cammino verso di essa (E.Kant,1795,46). "Essere in costante cammino" verso quello che Kant chiama "il diritto pubblico dell'umanità" significa - a parer mio - colmare proprio la distanza tra l'idea di giustizia come assoluto e la sua concreta attuazione nel singolo caso. Il precedente giuridico, nello specifico, è un esempio di come l'esperienza possa assolvere a parametro di valutazione generale; mentre la feconda proliferazione di leggi e decreti, nel nostro sistema giuridico, è testimonianza di un tentativo di adattare la norma, universalmente data, allo specifico che di volta in volta ne mostra le lacune e le mancanze. Non voglio qui discutere se sia questo il modo migliore, il più veloce o il più comodo per farlo; l’essenziale è che avvenga questa 'coniunctio' tra idea e forma, tra universale e particolare, tra ciò che l'animo umano sente che "dovrebbe essere" il giusto e ciò che la ragione sancisce che "è".

Leggi la prefazione di Aldo Carotenuto


Le principali pubblicazioni:

Lo sguardo dell'innocenza (2005)
La giustizia imperfetta (1998) - prefazione - introduzione
Il fascino del potere (1999) - prefazione - introduzione
Pubblicazioni on-line
La responsabilità professionale del medico (2004)
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