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Prefazione a: Il fascino del potere

Il fascino del potere - Prefazione di Aldo Carotenuto

Narra Chaucer, in uno dei suoi Racconti di Canterbury, di un cavaliere, condannato a morte, a cui viene offerta la possibilità di salvarsi se risponde ad un’enigma: “cos’è che le donne desiderano più di tutto?”. Dopo aver vagato per un anno e un giorno (questo il tempo concessogli), su consiglio di una vecchia strega, espone la risposta che gli salverà la vita: “quello che le donne più di tutto bramano è comandare sui loro uomini”. Ma sono davvero solo le donne a desiderarlo? O il mito della vecchia strega e della regina malvagia sono temi che illustrano che lo stesso tipo di desiderio è radicato, insieme alla paura di vedersi usurpato il proprio potere, anche nell’uomo? Rousseau sostiene che il giorno in cui il primo uomo piantò un paletto a delimitare il proprio possesso, si generò nell’umanità l’infelicità. Forse ha ragione, ma qualcuno prima o poi doveva pur farlo, perché lo stato di natura sarebbe oggi - con sei miliardi di abitanti - una prospettiva irrealizzabile. Ma all’origine di tutto c’era, anche nell’uomo preistorico, un’esigenza di ‘leadership’: l’affermazione della propria virilità nel contrastare le fiere, l’asserzione della propria femminilità nell’allevare la prole, l’ostentazione della propria superiorità nel consultare i numi... Tutto questo esisteva già prima della nascita della proprietà privata. E’ insita al bisogno naturale di comprensione, tipico dell’uomo, la necessità di trovare un senso alla propria vita e, nel farlo, di assegnarsi un ruolo da protagonista. Potremmo dunque dire che il fascino del potere, inteso come auto-affermazione, non è estraneo ad alcun uomo; ma in questo non c’è nulla di compromettente. Ma cos’è che fa la differenza tra un politico qualunque e Napoleone Bonaparte o, peggio ancora, Hitler? Cosa segna il confine tra la legittimità di un potere necessario per comandare le masse al fine di perseguire un bene comune e l’usurpazione e la violenza? Quando il potere diventa fine a se stesso e con ciò segna l’inizio della decadenza e della barbarie? La “sfida dei potenti” è una sfida ai limiti: la brama di un superamento continuo e di un’egemonia sempre più allargata che, troppo spesso, rischiano di sprofondare nel baratro della meschinità e della crudeltà. Non c’è immagine di uomo potente che, superato un certo limite, abbia potuto sottrarsi poi all’ineluttabile destino della sconfitta e alla miseria generata dall’inaridirsi della sua anima. Esiste, ed è sempre esistito, una sorta di patto implicito tra chi comanda e chi si lascia comandare, ossia che le glorie vanno condivise, ma i fallimenti conoscono un solo capro espiatorio: chi li ha generati. Con ciò ogni tiranno, come ogni regnante, ha potuto assicurarsi la propria longevità fin quando perduravano le sue vittorie... una sola sconfitta poteva significare il suo stesso sacrificio. Ci basta guardare a quello che recentemente sta accadendo negli Stati Uniti, dove un presidente, a cui non si può rimproverare il suo operato politico, viene attaccato e vilipeso sul fronte personale. Quell’unica falla, aperta nella sua vita privata, ha finito per travolgere la totalità delle sue azioni, facendo minacciosamente vacillare il suo “indice di gradimento”. Sono queste le “miserie dei re”, che nel loro rendersi portavoce delle masse, debbono incarnarne gli ideali più puri: anche quelli che persino i loro elettori non saprebbero conservare illibati. Al ‘leader’ si chiede sempre la perfezione dell’automa, della divinità infallibile, ma al tempo stesso - contraddizione manifesta del potere - gli si chiede anche che si mantenga umano e che non si lasci prendere dall’ebbrezza della sua forza. Il potere a lungo andare logora l’uomo e la sua identità, costringendolo a pressioni troppo gravose, dove ogni passo può essere quello dell’ulteriore ascesa o dell’irreparabile crollo. Pensiamo al titanico Prometeo e alla sua miserevole ‘passione’. Il mito narra che i titani, un tempo, erano i dominatori del mondo. La loro forza e la loro ricchezza non conosceva eguali e, con esse, governavano sugli uomini, con l’accondiscendenza degli dei. Ma poi un giorno, si lasciarono prendere la mano dalla cupidigia e dall’ambizione e le loro azioni divennero malvagie. Scatenata la vendetta degli dei, solo Prometeo ebbe la lungimiranza di rendere pubblica ammenda e così fu graziato da Zeus, che gli concesse, in cambio della sua fedeltà, la padronanza delle arti e la conoscenza dei segreti celesti. Ma la natura titanica di Prometeo, ben presto, tornò a farsi prepotentemente sentire e, in un attimo di eccessiva sicurezza, donò agli uomini il fuoco della conoscenza, sottraendolo all’Olimpo. Quest’azione gli sarebbe costata un gravoso patimento: legato alla cima di un monte, di giorno un’aquila gli mangiava il fegato che ogni notte gli ricresceva. Sembrerebbe una banalità ricordare la famosa espressione “rodersi il fegato” che significa appunto “avvelenarsi l’anima” o “arrovellarsi la mente” nel cercare inutili soluzioni. Questa, di fatto, è la condizione esistenziale del potente che sempre si è dovuto guardare dalla minaccia di una possibile sconfitta. Un tempo cadevano vittime di una congiura di palazzo - come accadde a Cesare - oggi devono fare i conti con “tangentopoli” o con il “sexygate”! Ma la musica non cambia: se si vogliono sfiorare le vette si deve prendere in considerazione anche il fatto che il palazzo dell’imperatore può diventare la sua prigione, se non la sua tomba. Più spesso è la follia a trarli in salvo: nel senso che, almeno così, si eludono il peso, la responsabilità e la consapevolezza della sconfitta. Non voglio prendere le parti dei potenti - o almeno non di tutti - ma va ricordato che non si è “potenti” solo quando si governa una nazione o si tiranneggia un popolo. Lo si è anche, e in egual misura, quando nel piccolo e nel segreto delle mura domestiche, si impone la propria legge ai figli o si maltrattano le mogli. C’è una vecchia consuetudine secondo cui - seguendo la legge del “pesce grande mangia pesce piccolo” - il cane, in una famiglia, è l’ultimo anello nella catena dei soprusi. Sfido chiunque a negare che, almeno una volta nella vita, abbia nutrito sentimenti di rivalsa o di sopraffazione nei confronti di un proprio simile; foss’anche per difesa. Non c’è dunque modo di arginare il fascino del potere, semplicemente perché non si può negare a un uomo il suo naturale bisogno di auto-affermazione. Quello che invece si può e si deve ricordare è che quando la propria libertà e la propria forza diventano la schiavitù e la debolezza altrui, si è già intrapresa la strada del tramonto. Il potere che nasce dalla sconfitta altrui è solo un’illusione, destinata a crollare miseramente: la vera forza è una vittoria su se stessi.

Leggi il capitolo introduttivo

Le principali pubblicazioni:

Lo sguardo dell'innocenza (2005)
La giustizia imperfetta (1998) - prefazione - introduzione
Il fascino del potere (1999) - prefazione - introduzione
Pubblicazioni on-line
La responsabilità professionale del medico (2004)
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